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La voce delle onde è un romanzo di Yukio Mishima  scritto nel 1954. E’ piccolo e delicato come un bocciolo. Come un bocciolo si dischiude lentamente. È la storia di un amore che sboccia. Dal momento in cui spunta la gemma fin quando il fiore mostra orgoglioso tutta la sua bellezza, il romanzo ci risparmia infine di vederlo appassire,questo fiore, lasciandoci nell’ammirazione del suo massimo splendore. Lottiamo con l’idea che questo libro possa essere stato scritto dallo stesso autore di Confessioni di una maschera e dallo stesso uomo che pratico il seppuku invocando il riarmo del Giappone. È la storia d’amore di due adolescenti che vivono in una piccola isola giapponese. Il loro primo sguardo, il loro primo bacio, le loro prove d’amore. Un amore senza sfumature come deve essere il primo amore della vita. Un romanzo senza sfumature come deve essere un romanzo d’amore. Vizio e virtù, bene e male, restano ben separati, come acqua e olio. La sfumatura, il chiaroscuro con cui spesso, in altri testi, Mishima gioca spaesando il lettore, negandogli ogni certezza, qui sono totalmente assenti. Manca quel puntino bianco nel nero e quel puntino nero nel bianco che si vedono nel Tao. Il limite sottile che, altrove in Mishima, divide morale ed immorale, è in questo romanzo una spessa cortina di ferro. È l’amore a prima vista, bello e incondizionato, l’amore a tutti costi raccontato fino all’apice della felicità degli amanti. Questo è stato ciò che ho amato ne La voce delle onde. La volontà e la  capacità dell’autore di raccontarci la bellezza dell’amore e solo quella. Indubbiamente è una piccola parte di una storia d’amore, la parte pura, incontaminata e l’autore lo sa bene quando scrive, parlando dei due innamorati ormai fidanzati, nella pagina che chiude il libro: “… Davanti a loro si stendeva l’insondabile oscurità …”. Poi Mishima si ferma, l’oscurità resta solo un presagio. Per ora, permette al lettore di contemplare l’amore perfetto, il resto lo racconterà in altre storie.

E’ vero che non si può sempre leggere Francis Scott Key Fitzgerald o Italo Calvino e ogni tanto è quasi obbligatorio sfogliare le pagine di qualche prima edizione stampata di fresco o almeno non più di dieci anni fà. Ma spesso, anzi quasi sempre, si va incontro a delusioni cocenti e demoralizzanti. L’antologia “The clash”  purtroppo non fa eccezione e mi permette di trovarmi in disaccordo con un buon romanziere come Valerio Evangelisti, che nella sua generosa introduzione la definisce addirittura “importantissima”. Condivido il suo pensiero quando dice: “l’odierna letteratura italiana, salvo rare eccezioni, si tiene ben lontana da tematiche politico-sociali” ma a me sembra che sia stato fatto lo stesso anche in questa modesta raccolta di racconti tra le cui pagine non ho rilevato la “messa in discussione dell’intero modo di vivere sotto il capitale né ho colto “la sfida al pessimismo corrente” intraviste da Evangelisti. Ho letto un racconto, il primo, che mi ha fatto sorridere, e per far sorridere, lo so bene, bisogna saper scrivere, ma se bastasse mettere in scena la diversità sessuale per generare conflitto percepiremmo in modo più lieve la differenza tra Vladimir Luxuria e Rosa Luxemburg, differenza che personalmente trovo ancora molto marcata. Il secondo racconto è di Marco Capoccetti Boccia ed è un bel racconto. Parla di un’esperienza che ho in parte condiviso, ne parla con orgoglio, ma la storia è quella di una battaglia purtroppo persa e in fin dei conti, nonostante il fomento dell’autore nel rievocare i suoi stati d’animo di quei momenti, perde la sfida nei confronti del pessimismo corrente. Leggere fino alla fine il terzo racconto è stato molto difficile, non sono riuscito ad estrapolarne alcun senso e per me rimane a far parte dell’infinito oceano composto dalle parole di tutte lingue di tutti i tempi dal quale ogni scrittore pesca quelle con cui compone il suo testo. Il quarto racconto è vergognoso. Fa decisamente rimpiangere quello precedente che era innocuamente incomprensibile. Lasciar intendere che chi a Genova  ha spaccato le vetrine di una banca debba essere un provocatore fascista o una guardia infiltrata, definirli, definirci ominidi è infamità. Genova fu messa a ferro fuoco dalla nostra rabbia, la repressione fu durissima, lo ricordo bene, ma la rivoluzione non è un pranzo di gala e se avremo la fortuna di parteciparvi prepariamoci a ben altri livelli di conflitto. Segue un raccontino intitolato luglio sul ritorno a Genova dieci anni dopo che inevitabilmente suscita qualche emozione, almeno a chi era lì nel 2001, perché ci  ricorda quanto tempo è passato. Poi c’è il racconto femminista al sapor di quota rosa seguito da un altro che ho trovato fuori contesto all’interno di un’antologia dedicata alla lotta e al conflitto. Ho apprezzato invece Il risveglio di Luca Palumbo che almeno c’ha regalato un minimo di tensione e uno schizzetto di sangue. Dopo … il nulla. Neanche Marco Philopat che mi aveva tanto fomentato con “La banda Bellini” è riuscito ad essere incisivo e coerente con il tema della raccolta così com’è descritto in terza copertina.

In chiusura il mio saluto, il mio pensiero, i miei migliori auguri vanno a chi ora corre col cuore in gola fuggendo alla condanna di questo Stato boia. Possiate trovare in questo luglio la libertà che sprigionammo undici anni fà e godervela per sempre. Possano non trovarvi mai!

Come è stato scritto sul manifesto che invitava al presidio sotto la cassazione per le condanne definitive del g8 di Genova 2001:

IL NOSTRO UNICO RIMPIANTO E’ NON AVER FATTO ABBASTANZAImage

Da un po di tempo ho smesso di scrivere e commentare i libri ed i fumetti che mi capitano tra le mani perchè i fatti della vita mi hanno spinto a parlare d’altro, dopotutto questo è il mio blog, il mio spazio, ed è giusto che lo occupi come meglio credo. Due giorni fa dopo la seconda scossa di terromoto in Emilia che ha provocato ancora diversi morti, avrei voluto parlare un po’ del perchè sia nella prima ondata del sisma che nella seconda i morti si contano, per la stragrande maggioranza tra gli operai che lavoravono nei capannoni industriali e di quanto nella seconda occasione fosse grave che la loro morte sia stata provocata non dal sisma ma dal mancato blocco della produzione, individuando come causa il profitto, prima nella costruzione “low cost” dei capannoni e poi nella volontà, portata avanti anche col ricatto, di tenere aperti questi stabilimenti produttivi nonostante gli evidenti rischi. Ma poi stamattina la prima pagina di Repubblica che titola parlando in modo sensazionalistico di strage degli operai, mi ha fatto passare del tutto la voglia per cui non vado oltre queste poche righe e il titolo di quest’articolo lo dedico ad un bel libro di Alessandro Portelli che parla, anzi fa parlare Centocelle (nientemeno), il mio quartiere. Città di parole, questo è il titolo del libro, è infatti, come si ricorda in copertina, la storia orale di una periferia romana, scritto, tra l’altro con la collaborazione di un’amica e compagna, Ulrike Viccaro, che proprio di storia urbana orale si occupa (da leggere anche il suo Storia di Borgata Gordiani. Dal fascismo agli anni del “boom”, Milano, Franco Angeli, 2007). Il libro è strutturato in capitoli che affrontano singolarmente alcune tematiche specifiche come l’immigrazione, la composizione sociale, il lavoro, la scuola, la resistenza, lo svilppo edilizio e demografico, i movimenti degli anni settanta, seguendo grosso modo una linea cronologica che dagli albori della nascita del quartiere arriva fino ai giorni della pubblicazione del libro nel 2006. Tutti gli elementi che ho citato e molti altri ancori sono ricostruiti attraverso il montaggio delle testimonianze orali di decine di abitanti del quartiere che, pescando nel mare della loro memoria, ci restituiscono il vivido dipinto di un quartiere proletario e indomito, laborioso e combattente, che, come è noto, insieme ad altre zone del quadrante sud-est di Roma, si liberò dal nazi-fascismo prima del resto della capitale. Un quartiere popolare e solidale caratterizzato, oltre che dalla storica opposizione agli occupanti e al regime negli anni della Resistenza, anche da numerose lotte operaie, come quella della Milatex, dai movimenti di lotta per la casa e dalla famosa e oggi più che mai attuale oltre che, si spera, riproducibile, opposizione agli aumenti del costo dei trasporti quando in questa zona c’era solo il trenino, che c’è tutt’ora con la tratta Roma-Pantano, che al tempo era chiamato “dei vicinali”. Il ritratto di quella vecchia Centocelle, avanzando sulla linea cronoligica che arriva fino ai nostri giorni, diviene meno romantico, assecondando da una parte la realtà dei fatti, che sicuramente vede un peggioramento oggettivo delle condizioni di solidarietà e delle relazioni umane all’interno del territorio cittadino in generale, dall’altra seguendo la naturale dinamica che ci permette in ogni caso di guardare al passato remoto delle nostre vite con maggiore dolcezza e una vena inevitabile di nostalgia. Un libro da leggere per chi oggi vive questa parte di Roma, perchè la memoria storica non può essere composta e ricercata solo nei grandi fatti storici, ma anzi deve trovare le sue radici proprio nelle piccole storie di chi ha vissuto prima di noi i territori in cui oggi ci troviamo a vivere. Niente meglio di questo ci può far sentire secondo me l’orgoglio di essere oggi proletari e romani… de centocelle.